ELBA: UVA E VINO
L'Elba può vantare da tempo immemorabile una notevole tradizione enologica e ancor oggi la viticoltura riveste una fonte di ricchezza e di prosperità nella sua economia.
Forse la vite vi nacque spontanea o forse furono le genti semitiche a trasportarla nell'isola in una delle loro trasmigrazioni verso l'occidente e vi prosperò avendovi trovato terreno ferace e clima adatto. Senza addentrarsi troppo nella leggenda si può affermare che la viticoltura elbana è tanto antica quanto possono essere le più remote memorie che dell'isola fanno cenno. Fu del resto Plinio, il grande naturalista romano, a presentarcela come «insula vini ferax». I continui ritrovamenti di anfore vinarie sparse sui fondali delle coste o addirittura entro relitti di navi onerarie sono la conferma di un attivo e fiorente commercio del vino elbano.
Sebbene siano scarse le informazioni sul periodo romano si ritiene che la viticoltura dell'isola resistesse al divieto di Domiziano di distruggere i vigneti esistenti per far posto alla produzione del grano, insufficiente al fabbisogno. E' quindi assai probabile che il vino dell'Elba giungesse a Roma per allietare le tavole delle corti imperiali.
Le traversie politiche, le devastazioni, le invasioni barbariche, il continuo alternarsi di dominatori non distolsero completamente — nel Medio Evo — i viticoltori elbani dalla loro diuturna fatica. Si continuò pertanto a produrre il prezioso e generoso succo dell'uva, tanto che i vini dell'Elba comparvero persino sulle mense papali. Ce lo conferma Sante Lancerà), bottigliere di Papa Paolo III Farnese nelle sue «Memorie enologiche» e anche Andrea Bacci, archiatra di Sisto V nel «De Naturali Vinorum Historia». C'è poi chi sostiene che persino Nicolò Machiavelli tenesse sul suo tavolo sempre un bicchiere di «Bianco dell'Elba».
Sotto il dominio di Cosimo de' Medici e dei suoi successori si manifesta attraverso molti documenti la volontà di difendere la coltura della vite e sviluppare l'agricoltura elbana. Risale infatti al governo di Ferdinando I l'emanazione di un significativo «Bando delle Vigne» datato «Adì 20 d'agosto 1595» con il quale il Granduca, preoccupato perchè i vigneti della giurisdizione di Portoferraio erano rimasti privi di siepi «mediante harsione» e quindi alla mercè di ogni bestia in cerca di pascolo «comanda et vuole» che vengano sorvegliati gli animali fino a vendemmia compiuta, stabilendo la multa di uno scudo per bestia grossa e mezzo per bestia minuta «comprendendo anchora le capre infra detto bestiame minuto».
Anche la casa dei Lorena, succedutasi ai Medici nel governo della Toscana, cercò di migliorare le condizioni dei viticoltori. E' infatti col «Regolamento per la vendita del vino in Portoferraio» emanato dal Conte degli Alberti, ministro di stato del Granduca Pietro Leopoldo nell'anno 1766 si tenta di sanare una situazione incresciosa, instaurando sperimentalmente la municipalizzazione della vendita. Gli utili venivano ripartiti tra i proprietari dei vigneti e il Municipio di Portoferraio, il quale si riprometteva di utilizzarli «per supplire alla spesa necessaria del risarcimento delle Strade sia di Città che di Campagna comeppure del loro Mantenimento». Ed ecco' il motivo di questo provvedimento nella descrizione degli inconvenienti lamentati col sistema di vendita in atto: gli agricoltori «confidano il vino alli Bettolanti, li quali ne pagano ad essi la valuta a denari ripresi e ritengono per loro incomodo un Paolo per Barile. Questi Bettolanti, non contenti dí un tal'onesto guadagno e di quello che fanno nel dare a mangiare alla gente che capita nelle loro Bettole si son fatti talvolta lecito di allungare il vino con dell'acqua, il che ha dato talora luogo a de' lamenti da parte della Guarnizione». Un provvedimento insomma che tendeva ad impedire l'adulterazione più comune del vino.
Forse un ennesimo cambiamento di governo pose fine all'ardito esperimento; infatti l'Elba fu in questo periodo oggetto di contesa tra diverse potenze europee ed esposta a continue scorrerie di pirati e barbareschi.
Contrastanti sono i dati sulla produzione alla fine del '700 perchè secondo il naturalista Pini la produzione era insufficiente al fabbisogno della popolazione, mentre Sebastiano Lambardi che l'isola doveva conoscerla assai a fondo, nelle sue «Memorie antiche dell'isola d'Elba» la dichiarò piuttosto abbondante, tanto da essere oggetto di carico da parte di numerosi bastimenti genovesi. Aggiungiamo che il vino elbano arrivava anche a Roma con le «barche vinacce-re» come ricorda Vittorio G. Rossi. «Erano leudi, precisa, avevano un albero, una vela, l'albero era inclinato verso la prora». Le rivediamo su una delle più belle incisioni del Piranesi proprio a Ripetta, il porto della Città Eterna, con il loro carico di botti.
Discese in Italia le truppe francesi e fuggiti i Lorena da Firenze, l'Elba ritrovò la sua unità con l'annessione alla Repubblica d'oltralpe nel 1802. Fu durante l'amministrazione del governatore francese G. B. Dalesme, generale e barone dell'Impero, che furono attuati saggi provvedimenti atti a stimolare la produzione e il commercio del tipico prodotto isolano. Vennero infatti eliminati gli odiosi e pesanti balzelli doganali che impedivano l'esportazione e tutelati così i vini elbani al pari di quelli francesi. Il decreto di esenzione doganale fu emanato a Parigi e firmato da Napoleone I imperatore dei Francesi. «A datare dalla pubblica-
76zione del presente decreto, si legge nell'art. 1, i vini provenienti e che si fanno all'isola dell'Elba sono ammessi nei porti della Francia, della Liguria e degli stati romani con esenzione del diritto di dogana».
Toccò proprio al generale Dalesme, dopo circa quattro anni di governatorato, di consegnare la piazza di Portoferraio e l'Elba a Napoleone Bonaparte, diventato ora «ex imperatore dei Francesi», dal quale lo aveva ricevuto.
Di brevissima durata fu il regno-esilio del «piccolo caporale» (4 maggio 1814 - 26 febbraio 1815), ma una così spiccata personalità non poteva non lasciare profonde tracce nella vita e nell'economia dell'isola. E infatti contribuì certamente allo sviluppo della viticoltura con le premure e i provvedimenti presi a suo favore e dell'agricoltura in genere. Intensificò e incoraggiò anche la produzione del grano, la coltura e la concia del lino, l'allevamento del baco da seta. Fu in quest'epoca che il patrimonio viticolo salì alle punte massime, mai prima a mai più raggiunte, con 32 milioni e mezzo di piante.
Gli elbani furono felici di saltare improvvisamente alla ribalta della storia per avere tra loro un imperatore, sia pure declassato al rango di reuccio di una piccola isola, e lo accolsero festosamente con balli e canti sotto le finestre della sua dimora:
«Mira, o Signor, le floride
colline a te d'intorno
il suol di viti adorno
ricche d'eletto vin».
Numerosi sono gli aneddoti che ci rivelano un Napoleone sconosciuto, non del tutto astemio, ché anzi non disdegnava un buon bicchier di vino, quando i contadini glielo offrivano, sedendosi al loro tavolo, con la sua lucerna poggiata per terra, sotto la sedia.
In occasione del matrimonio di un marinaio l'imperatore espresse il desiderio di partecipare alla festa. Qualcuno gli osservò che a quella tarda ora e dopo abbondanti libagioni si sarebbe esposto al rischio di qualche spiacevole mancanza di rispetto
— «Bah! Tutt'al più mi offriranno qualche bicchiere di aleatico». Rispose Napoleone.
E che l'aleatico gli piacesse ce lo ricorda Emanuele Foresi riferendo che ci inzuppava perfino i biscotti.
Un pò permaloso si dimostrò quando Carlo Perez gli offrì un bicchiere di procanico.
— «Buono questo vino!» esclamò l'imperatore dopo averne bevuto un sorso.
— «Maestà, ne ho ancora di migliore!».
— «Bene! lo conservi per una migliore occasione!» fu la risposta risentita.
L'aiutante di campo generale Bertrand aveva ricevuto da lui stesso ordine scritto di acquistare il vino per la sua tavola «sol quando esso fosse riscontrato buono». E sulla mensa figurava anche una «ghiottoneria» riservata a lui solo, dello spumante, del quale beveva a fine pasto solo mezzo bicchiere; probabilmente gli aiutava la digestione, che aveva notoriamente un po' difficile.
Non fu rado vederlo occuparsi dei vigneti di San Martino e anzi nella biblioteca personale figurano dei trattati sulla coltura della vite e dei frutteti, sull'arte di fare il vino e l'acquavite. Tutti libri freschi di stampa, editi a Parigi nel 1803 e nel 1805.
Un celebre disegno ce lo mostra intento ad arare un campicello nella campagna di Lacona, non tuttavia nel momento in cui «i bovi ribelli a quelle mani — che pur seppero infrenare l'Europa — fuggivano dal solco».

Tornato a Parigi l'imperatore affermò, forse con una punta di malinconia, dinnanzi alla sua corte, che «gli abitanti dell'Elba sono forti e sani perchè il vino della loro isola dona forza e salute»... La moderna scienza ha confermato oggi il potere ricostituente ed energetico del vino elbano per il notevole contenuto di ferro, di fosforo e di arsenico e per la specifica radioattività naturale che il terreno gli fornisce.
Fra il 1854 e il 1861 ricominciarono i guai per la viticoltura elbana a causa della comparsa dell'oìdio, più comunemente noto sotto il nome di crittògama. Sconosciuto ancora ogni rimedio, gli agricoltori cominciarono a vendere le loro proprietà e tentare nella navigazione e nell'espatrio una sorte più benigna. Non mancò chi d'altra parte tentasse di scoprire qualche metodo di lotta, come fece Raffaello Lombardi, che pubblicò in un volumetto un nuovo metodo di coltivazione «per salvare con certezza e senza spese le viti appoggiate sugli alberi e sui pali dalla malattia denominata la crittògama». Il metodo, assai empirico, consisteva nello «sdraiare» a terra i tralci fruttiferi e far sì che l'uva si
appoggiasse sul terreno. Benchè approvato dall'Accademia dei Georgofili e citato da Luigi Ridolfi sul Giornale Agrario Toscano, che pur non vi dimostrava eccessiva fiducia, il nuovo metodo non ebbe successo. Fu successivamente Jacopo Foresi ad attuare il vero ed ancor oggi efficace metodo delle solforazioni. Gli fu suggerito dal figlio dott. Alessandro, illustre letterato elbano, che lo aveva visto applicare in Francia. Questo sistema, mantenuto per lungo tempo segreto, procurò al sor Jacopo la fama di «mago» presso gli altri viticoltori, che non riuscivano in altro modo a spiegarsi come le sue vigne rimanessero indenni dall'infezione.
Mario Foresi, anch'egli letterato illustre, nipote del sor Jacopo, narra che il nonno era diventato così esperto nel curare la vigna che riusciva sempre ad ottenere un'ottima vendemmia da non avere più sufficienti botti per ospitare la produzione. Se non fosse capitata una tartàna ad attingere mosto, un anno avrebbe dovuto colmare una cisterna. Quest'episodio gli suggerì l'idea di farsi costruire dal noto architetto Antonio Cipolla il suo «cantinone» di Lacona, dalle enormi botti capaci di oltre 200 ettolitri ciascuna. Quando poi esse si resero inutili nel periodo fillosserico, sette buontemponi se le ruzzolarono fino alla spiaggia e se ne servirono come abitazioni estive durante la stagione dei bagni.
La comparsa della fillossera fu preannunziata sul «Corriere dell'Elba» del 5 aprile 1879 dal conte prof. Giulio Pullè con un articolo premonitore: «Un pericolo imminente» e con alcune sue conferenze. L'articolo terminava testualmente: «L'allarme è dato, si pensi alla salvezza». E la fillossera comparve all'Elba nel 1882 compromettendo fortemente la produzione. Il patrimonio viticolo fu quasi completamente distrutto e ogni previsione per il futuro sembrava assai disperata. Più tardi, mercè le provvidenze del Ministero dell'Agricoltura e l'opera assidua di valenti tecnici, il patrimonio viticolo fu ricostituito, ma rimarrà ben lungi dal livello massimo già raggiunto.
Deposte la cure del foro il dott. Giuseppe Piazzini, il Redi dell'isola, componeva nei primi dell'800 un poemetto eroicomico in tre canti: «Bacco all'Elba». Poniamo temine a questa inchiesta storico-anedottica traendo da questo alcune significative sestine:
«...Benedetto sia in eterno il suol
da Valle al Melo, all'Acqua-Buona,
quello di Capo-libero, e Literno,
di San Martin, di Procchio e dell'Atona;
e tra le rupi e balze marcianesi
il suol di Sant'Andrea, Zanca e Patresi
ma sovr'ogn'altro benedetto sia
il suol, dal Cavo ai Magazzin vitato
quel che fiancheggia di Litran la via,
e il suol della Torretta e Monserrato;
ove nasce un liquor sì generoso
dopo il Nettar Celeste il più prezioso».
Tanto più prezioso, quanto più invecchiato nel vetro. E per questo dovremo dare ragione a quell'Ammiraglio francese che, approdato a Portoferraio allo spirare del secolo XVIII, nell'assaggiare i più generosi vini del paese, esclamò più volte con enfasi: «Quelle folie de boir si tòt ces vins .
Settembre 1960
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